Osteria La Sangiovesa: un infuso di romagnolità. Parola di Massimiliano Mussoni. | Consorzio Vini di Romagna
luglio 2021 | Tradizione

Osteria La Sangiovesa: un infuso di romagnolità. Parola di Massimiliano Mussoni.

Nel cuore di Santarcangelo di Romagna, all’interno di Palazzo Nadiani, splende l’osteria La Sangiovesa, il gioiello della famiglia Maggioli in cui la tradizione gastronomica romagnola è di casa.

Osteria La Sangiovesa: un infuso di romagnolità. Parola di Massimiliano Mussoni. | Consorzio Vini di Romagna

La Sangiovesa è un luogo mitico, un sogno sognato dall’imprenditore Manlio Maggioli nel 1990, popolato dai versi e dalle opere di Tonino Guerra, dai quadri di Guido Cagnacci, dalle tavole e dagli arredi che custodiscono il tocco di Federico Fellini, dalle storie e dai sorrisi delle persone che qui hanno lasciato un pezzo del proprio cuore, il tutto perfettamente custodito in questo scrigno di pietra, arte, legno e storia. La Sangiovesa è tutto questo, ma prima di ogni altra cosa è un punto di riferimento per quanto riguarda la cucina tradizionale romagnola. Abbiamo incontrato Massimiliano Mussoni, da 22 anni chef e responsabile di un locale di culto, simbolo della romagnolità.

Massimiliano, come ogni storia che si rispetti, partiamo dall’inizio: quando è nato in te il sogno di diventare uno chef.

A me la cucina è sempre piaciuta, già da bambino. Ma non è stato fin da subito il sogno che mi tirava giù dal letto la mattina. Per far quello ci pensava mia mamma con il brodo.

In che senso, scusa?

Nel senso che praticamente ogni mattina lei metteva su questa grande pentola di brodo da dove spuntava la zampa di una gallina, che serviva per aiutarla a mescolare. Allora si faceva così, si cucinavano questi brodi corposi dal profumo unico che avrebbero svegliato chiunque. Di sicuro svegliavano me. È una cosa che ricordo benissimo, anche perché mia mamma continua a prepararlo. È stato allora che ho capito l’importanza del mangiare bene, di fare le cose con le proprie mani.

Insomma, c’è lo zampino di tua mamma in quella che è diventata la tua passione e il tuo lavoro.

Sì, quando avevo 9 o 10 anni mi faceva tirare la piada, e mi piaceva, anche se sul momento non gli attribuivo nessun significato particolare. Era una cosa che facevo con lei, per la famiglia, per mio papà in particolare. Una volta, quando ci si sposava, si chiedeva alla futura moglie se sapeva fare la piada. Perché ad esempio il mio babbo, quando tornava a casa la sera gli piaceva mangiare la piada appena fatta, che tanto un pezzo di formaggio o un salame c’era sempre, così come un bicchiere di vino, anche quello fatto in casa. Ma la piada non poteva mancare.

E poi? Quale percorso di studi hai fatto?

Quando è stata l’ora di scegliere il mio percorso, ho sentito che l’alberghiero di Rimini era quello che faceva per me. Si basava sull’artigianalità, sul fare con le proprie mani, che era la cosa che avevo imparato a casa. E allora lì ho avuto le idee chiare: avrei fatto il cuoco, o almeno ci avrei provato. Ed è stato bellissimo, perché diversamente da adesso facevamo molte ore pratiche, andando in laboratori e pasticcerie durante l’estate. E se capitavi nei posti giusti riuscivi anche a vedere delle cose interessanti.

Fra le esperienze che hai fatto ce n’è stata qualcuna di particolarmente importante? O delle persone che sono state fondamentali nel farti diventare la persona e il professionista che sei ora?

Ci sono tantissime persone che mi hanno aiutato a crescere. Rischierei di dimenticare qualcuno, perché tutte le persone che ho incontrato e tutte le esperienze che ho fatto sono state importanti: dall’albergo a tre stelle, in cui ho lavorato l’ultimo anno di scuola per sei mesi senza mai avere un giorno di riposo, fino allo stage da Oldani quando avevo 27, 28 anni. Ecco, per quello stage sono grato a Vincenzo Cammerucci, uno dei migliori chef del territorio, un punto di riferimento per quello che riguarda la cucina romagnola. È una persona eccezionale che vado a trovare ogni volta che posso.

Tra l’altro è proprio a quell’età che sei arrivato all’Osteria La Sangiovesa chiamato da Manlio Maggioli, il proprietario, giusto? [N.d.A. Manlio Maggioli è fondatore del Gruppo Maggioli, che opera nell'editoria, nella formazione, nella consulenza e nel supporto operativo a enti locali, pubbliche amministrazioni, aziende private e liberi professionisti.]

Esatto. Manlio Maggioli è un imprenditore illuminato, lungimirante. La sua mente non si ferma mai. Ogni mattina viene all’osteria, e ogni mattina si pone una domanda: come si può migliorare questa realtà? È una cosa incredibile, anche perché se dietro non c’è un imprenditore che investe, non vai avanti. Aver creato un ristorante simile è merito suo, che l’ha visto prima ancora che esistesse. La Sangiovesa, infatti, nasce dopo che Manlio Maggioli comprò Palazzo Nadiani, un palazzo storico di Santarcangelo che era caduto in disgrazia e di cui voleva recuperare il valore storico e culturale. E qua inizia la storia più bella, che ti assicuro non è una leggenda. Un giorno, passeggiando per Santarcangelo con Tonino Guerra, di cui era editore, e Federico Fellini, Manlio chiese allo scrittore: “Come lo chiamiamo il ristorante che voglio fare qua nel palazzo?”. E Tonino gli rispose: “Beh, chiamiamolo La Sangiovesa!”. Quindi, ecco, Manlio Maggioli creò e trovò il luogo, ma fu Tonino Guerra a battezzarlo con questo nome.

Hai fatto bene a specificare che non si tratta di una leggenda, anche perché è una storia che ha dell’incredibile già solo per il calibro dei suoi protagonisti. Ma venendo alla proposta gastronomica, qual è il tuo rapporto con la tradizione gastronomica romagnola?

Ogni materia prima che mi arriva conserva una sfumatura particolare. Per fare un esempio, gli animali che alleviamo a Tenuta Saiano, come piccioni, maiali, o gli animali da cortile in generale, ognuno di loro è diverso, e diverso sarà quello che potrà esprimere nel piatto. Per questo di volta in volta capiamo se lavorarli tradizionalmente o in un modo che parta dalla tradizione e la superi. L’ingrediente è al centro, e tutt’attorno c’è la Romagna, quella di una volta e quella di adesso. Anche perché a mio modo di vedere la tradizione è un qualcosa che si scrive continuamente, in cucina, e ha molto a che fare con il modo in cui un piatto riesce a creare un legame con chi lo mangia. Fare una zuppa inglese con un Alchermes chiaro, perché si è deciso con Baldo Baldinini dell’Olfattorio di eliminare il colorante, è comunque tradizione: lì dentro c’è il rispetto di una ricetta iconica, ma anche il rispetto per l’avventore e per le materie prime. Abbiamo eliminato il superfluo, il dannoso: quella che rimane è una ricetta nuova, che però resta coerente all’artigianalità necessaria per crearla. Insomma, è poi il cliente ad avere l’ultima parola, ma questo è quello che penso e che facciamo qua a La Sangiovesa da più di 20 anni.

Hai parlato dell’Olfattorio e di Tenuta Saiano, che insieme a ViaSaffi32 compongono la galassia de La Sangiovesa. Vuoi parlarcene?

Abbiamo la fortuna di lavorare con Baldo Baldinini, un alchimista-profumiere straordinario che collabora anche con diversi grandi stellati in tutta Italia. Nel suo Olfattorio, che si trova all’interno di Tenuta Saiano, Baldo lavora con botaniche di nicchia e prodotti rari. Insieme abbiamo creato dei vermouth particolari partendo dai vini prodotti nella nostra cantina. È un modo per offrire ai clienti un aperitivo diverso dal solito e di alta qualità. Tenuta Saiano invece è l’azienda agricola della proprietà, dove vengono prodotti i vini, l’olio, e dove vengono allevati gli animali che utilizziamo qua all’osteria. La nostra di fatto è una filiera cortissima. Considera che di fatto tutte le carni e i salumi arrivano da lì, tranne le carni rosse. Per quelle ci affidiamo a dei fornitori selezionati, tenendo in mente quello che ci ripete spesso Manlio Maggioli: “Il prodotto migliore, al miglior prezzo”. E poi per finire, l’ultimo arrivato: ViaSaffi32. La proprietà ha investito in questo laboratorio in cui vengono realizzati i grandi lievitati, i gelati, le torte e i dolci al cucchiaio che poi serviamo all’osteria. Ma oltre a essere un laboratorio, ViaSaffi32 è anche una bottega dove poter comprare i prodotti di Tenuta Saiano e un locale dove proponiamo prodotti come le tigelle e le focacce a lunghissima lievitazione con i nostri salumi. [N.d.A durante l’intervista, ViaSaffi32 ha ricevuto a Roma il premio del Gambero Rosso come miglior street food dell’Emilia-Romagna].

A proposito di vino: all’osteria La Sangiovesa il vino ha un ruolo da protagonista o sbaglio?

La Sangiovesa è tradizione, quindi se si parla di vino si parla di vino romagnolo: certi piatti troverebbero adatta la compagnia di un calice di Barolo o di Amarone, ma una cucina tradizionale chiede un vino di questa terra. Quindi sì, la nostra è una carta importante che parla romagnolo.

So che sarà difficile rispondere, e forse te lo sto chiedendo proprio per questo motivo, ma quali sono i vini rossi e bianchi che preferisci?

In generale preferisco vini in cui si sente la voce e il carattere della Romagna, senza che questa sia coperta da un uso esagerato del legno. Per il rosso dico Romagna Sangiovese DOC, e in particolare quello prodotto nella zona di Predappio e di Modigliana. Mentre per il bianco, anche se il Romagna Albana DOCG è un vino eccezionale, dico Romagna Trebbiano DOC o Colli di Rimini DOP Rebola, due denominazioni che a mio parere svolgeranno un ruolo importante per il futuro dell’enologia romagnola.

E se ti chiedessi di pensare questi vini abbinati a un vostro piatto, cosa mi risponderesti?

Beh, la rebola accompagna l’intero pasto, è perfetta anche con i primi non troppo importanti, o con una selezione di formaggi. Però se devo dirti un abbinamento specifico dico cassone alle erbe con una fetta di formaggio e fichi caramellati. Con il sangiovese andiamo su secondi più corposi, come lo stracotto di pecora, o la nostra trippa. È una ricetta che innoviamo e perfezioniamo da 30 anni: usiamo la trippa del lunedì, una trippa grigia fresca del mattatoio di Faenza, che viene pulita e sbollentata. Si aggiunge poi una parte di Lampredotto e della trippa di maiale. Credo sia un abbinamento perfetto.

Parlando di vino, qual è il primo ricordo che ti viene in mente o quello più caro che hai in proposito?

[ride] Tu sai cos’è l’acquadiccia?

No, questa mi manca.

Un tempo, dopo che si era svinato si metteva dell’acqua nelle vinacce e poi, dopo due/tre giorni, si otteneva un vinello leggero e frizzantino. Non è un vero vino novello, è una cosa che si beveva e ancora si beve con castagne, biscotti e dolci secchi. Quando avevo 7 o 8 anni, mentre aiutavo mio papà a fare il vino, lui mi fece assaggiare dell’albana dolce. Solo che io, intanto, avevo capito come si apriva e usava il tino. Quando il mio babbo andò via per un momento, andai al tino in cui c’era, in teoria, il sangiovese. Peccato che lui lì dentro aveva messo dell’acqua per fare l’acquadiccia. Io iniziai a berla e…insomma, mi sono preso la mia prima ubriacatura così. Da lì alle esperienze con il vino che ho fatto negli stellati è un attimo [ride]. A parte tutto, negli ultimi anni ho capito che il vino e il cibo che proponi sono importanti, ma fondamentale è il racconto che se ne fa al cliente quando li si serve. La nostra proposta si è trasformata, capiamo cosa suggerire al cliente parlandoci, servendolo in modo personale. Noi in questi mesi di Covid non ci siamo fermati. Siamo andati nelle cantine, a visitare le vigne, a fare degustazioni, a mettere da parte un patrimonio di conoscenza e aneddoti che possiamo restituire alle persone nel momento in cui entrano nel ristorante e ci chiedono la carta dei vini. In questo senso la formazione è essenziale: continuare a scoprire, conoscere, farsi delle domande come: “questa cantina è adatta alla nostra proposta?”. La cosa più bella è stata vedere i ragazzi più giovani avvicinarsi alla materia, appassionarsi: molte volte se vuoi far nascere una scintilla devi portare i cuori vicino a dove arde più forte la legna.

Se dovessi chiederti 3 cose per cui vale la pena di venire all’osteria La Sangiovesa?

Allora, direi innanzitutto per le 3 o 4 Azdore che impastano e cuociono la piada sul momento. Da noi non c’è roba precotta, con ogni portata arriva della piada calda: vogliamo far vivere la magia di questa tradizione ai clienti, uno spettacolo al pari di quelli al cinema o a teatro. Una magia che c’è ma non si vede, invece, è la produzione della pasta fresca: immagina queste donne che ogni giorno sbattono e lavorano 50, 60 anche 80 tuorli per fare stringhetti, tagliatelle, pappardelle, e ravioli su tavole montate proprio nella sala del ristorante. Poi aggiungerei le opere di Tonino Guerra, o i quadri di Guido Cagnacci: ce ne sono quattro, nella sala dedicata a questo pittore del seicento che era proprio di Santarcangelo. Manlio Maggioli quando li ha comprati non se li è messi nel salotto di casa, ma li ha appesi nel ristorante, in modo che tutti gli ospiti e gli avventori potessero vederli e apprezzarli. Come per il vermouth, questo posto è un infuso di romagnolità. Il nostro scopo è quello di rendere genuinamente felice chi mette piede all’osteria La Sangiovesa, che provi quel senso di stupore, accoglienza e bellezza che provo ancora io, ogni giorno, dopo più di 20 anni.