E infine uscimmo a riveder il vino in Dante | Consorzio Vini di Romagna
agosto 2021 | Territorio

E infine uscimmo a riveder il vino in Dante

“Buon vin fa gruma e tristo vin fa muffa” è un detto popolare d’antica origine, non sconosciuto a Dante, anzi. Ma la conoscenza del Sommo in materia vitivinicola quanto è approfondita?

E infine uscimmo a riveder il vino in Dante | Consorzio Vini di Romagna

Che Dante bevesse vino non si può affermare con certezza, certo è che durante il Medioevo il nettare degli dei era spesso in tavola; dopotutto, l’acqua si rivelava talvolta pericolosa e, quindi, si tendeva a ridurne l’assunzione diretta. Escludendo la possibilità che fosse astemio, potremmo dunque ritenere che Dante bevesse vino.

Quanto fosse colto in materia di vino, lo possiamo determinare solo attraverso altrettante supposizioni, ricercando qualche informazione all'interno dei suoi testi.

Prima di cominciare con l’analisi dei suoi scritti, traiamo già alcuni indizi dai documenti di archivio che riportano i beni confiscatigli dopo la condanna: tra queste righe di carattere giuridico scopriamo infatti che Dante possedette due poderi comprendenti alcuni vigneti, uno a Radole, nel comune di Pontassieve, e l’altro sulla strada che da Firenze conduce a Fiesole. Possiamo quindi supporre che conoscesse il processo si sviluppo delle viti e che quindi potesse parzialmente aver partecipato alla vita agricola delle sue tenute.

A riveder “gli indizi” nella Divina Commedia

Se dobbiamo scovare indicazioni del rapporto di Dante col vino e la viticultura, il modo migliore di procedere è cominciando dalla sua opera più celebre: la Divina Commedia

Qualche riferimento al vino si trova in ognuno dei tre libri che compongono la divina trilogia, ecco dunque i casi più rilevanti per la nostra indagine!

Inferno

Nel luogo di Malebolgie che “tratta de’ ruffiani e ingannatori e lusinghieri”, leggiamo ai versi 22-24 del canto XXVIII: “Già veggia, per mezzul perdere o lulla, com’io vidi un, così non si pertugia, rotto dal mento infin dove si trulla”, ovvero: mai una botte (veggia) per il fatto di perdere una parte del suo fondo (mezzule e lulle erano rispettivamente la doga centrale e le due laterali fatte a mezza luna, che costituivano il fondo della botte), non si fora così, come io vidi uno spaccato, aperto dal mento fino all’ano.

Purgatorio

Nel secondo libro della Commedia, la voce vino compare tre volte:

  1. nel canto degli invidiosi (XIII) che narra l’episodio evangelico della trasmutazione dell’acqua in vino alle nozze di Cana;
  2. nel canto XV, dove si allude agli effetti del vino ai versi 122 e 123 (“velando li occhi e con le gambe avvolte, a guisa di cui vino o sonno piega”);
  3. nella terzina 76-78 del canto XXV, dove il racconto del pianto della vite è affidato alle parole di Stazio: “E perché meno ammiri la parola, guarda il calor del sol che si fa vino, giunto a l’omor che de la vite cola”, dove “l’omor che de la vite cola”. È la descrizione poetica del fenomeno noto come pianto della vite: la fuoriuscita di linfa dai tagli della potatura che segna la ripresa dell’attività vegetativa della pianta dopo il riposo invernale.

Curiosa è ancora la citazione al canto XXIV (23-24), di un vino specifico, ovvero la vernaccia:

«dal Torso fu, e purga per digiuno

l’anguille di Bolsena e la vernaccia».

Paradiso

Tra i pochi riferimenti alla vigna che compaiono nella trilogia, due sono situati proprio nel Paradiso.

In entrambe le occorrenze, il termine è usato per denotare la “vigna di Dio”, cioè la Chiesa.

Nei versi 86 del XII canto leggiamo:

«in picciol tempo gran dottor si feo;

tal che si mise a circüir la vigna

che tosto imbianca, se 'l vignaio è reo».

In un momento di critica nei confronti dei chierici che si affannano a predicare non tanto per difendere la fede, quanto per avere successo nel mondo, Dante utilizza la metafora della vigna che presto inaridisce (imbianca) se il vignaiuolo (cioè il papa), è malvagio (reo), cioè non la cura e custodisce come vorrebbe.

La seconda occorrenza si trova nel canto XVIII, al verso 132, usata in questo caso per citare con solennità i due profeti che per la Chiesa diedero la vita, nel martirio, a dispetto di papa Giovanni XXII a cui è rivolta l’opposta accusa di distruggerla.

«Ma tu che sol per cancellare scrivi,

pensa che Pietro e Paulo, che moriro

per la vigna che guasti, ancor son vivi».

Un ultimo indizio sulle competenze enologiche di Dante lo riscontriamo nel verso 114, di nuovo nel canto XII del Paradiso: “sì ch’è la muffa dov’era la gromma” (fuor di metafora: adesso c’è il Male dove c’era il Bene). La gromma è quella crosta formata dal sedimento del buon vino che all’epoca si credeva infondesse odore e sapore, mentre oggi, alla luce delle più moderne competenze, sappiamo quanto sia importante la pulizia delle botti.

Tornando al significato del verso, il poeta appone alla gromma la muffa, che si forma quando il vino è di qualità scadente. In questo caso si appella a immagini popolari (tali almeno nella sua Toscana), rifacendosi all’antico proverbio che recitava “buon vin fa gruma, e tristo vin fa muffa”.

Sebbene Dante non fosse totalmente estraneo ad alcuni processi di crescita dei vigneti e di vinificazione, a somme tirate, non possiamo però dire che fosse un profondo conoscitore dell’argomento. Ma questo è ciò che traiamo dalla sua opera più celebre, chissà se, davanti a un buon calice di trebbiano, il Sommo non avrebbe sfoderato altre sue dilettevoli conoscenze.