Nella notte tra il 13 e il 14 settembre 1321, Dante Alighieri si spense nella città in cui aveva trascorso gli ultimi anni dell’esilio, Ravenna.
Proprio nella splendida capitale dell’antico Esarcato bizantino riposano le spoglie del Sommo Poeta, che a Ravenna trovò non solo riparo, ma anche la pace per concludere la sua opera più celebre: la Divina Commedia.
Nella Commedia, ma anche in altri suoi scritti, sono numerosi i riferimenti al territorio romagnolo, ai suoi protagonisti e alle vicende che videro la Romagna come palcoscenico di importanti eventi storici e politici.
Il soggiorno a Ravenna
“Non è questa la via per ritornare in patria; ma se un’altra sarà trovata, che non deroghi alla fama e all’onore di Dante, prontamente accetterò», con queste parole il poeta comunica a un amico fiorentino che rifiuta l’umiliazione della multa e dell’offerta che viene da Firenze, la quale, minacciata da Uguccione della Faggiola, alleato di Cangrande in Toscana, è pronta ad offrire un’amnistia a tutti gli esuli, previo il pagamento di una multa e la rituale offerta nel giorno di San Giovanni.
Dante si trova in esilio, infatti, dal 10 marzo 1302, quando fu emanata la condanna a suo nome:
«Alighieri Dante è condannato per baratteria, frode, falsità, dolo, malizia, inique pratiche estortive, proventi illeciti, pederastia, e lo si condanna a 5000 fiorini di multa, interdizione perpetua dai pubblici uffici, esilio perpetuo (in contumacia), e se lo si prende, al rogo, così che muoia»
(Libro del chiodo - Archivio di Stato di Firenze - 10 marzo 1302)
Questa condizione segnò per sempre di dolore la sua vita, e distrusse ogni sua speranza umana, diventò lo specchio storico dell’esilio dell’uomo mortale, che poi assunse a oggetto della sua Divina Commedia.
Dopo i soggiorni presso i Signori di varie città d’Italia, nel 1318, Dante giunge a Ravenna, accolto da Guido Novello da Polenta, che lo tratta con onore.
Qui è circondato da una piccola corte di amici letterati e viene raggiunto dai figli Pietro e Jacopo e dalla figlia Antonia, fattasi suora col nome di suor Beatrice.
Grazie al podestà della città di Ravenna, il poeta trascorre gli ultimi tre anni di vita relativamente tranquilli, durante i quali crea un cenacolo letterario a cui prendono parte alcuni giovani letterati locali e finisce l’ultima parte della sua più grande opera.
Ravenna e i ravennati nella Divina Commedia
Sappiamo che nella Divina Commedia, Dante assurge a un compito profetico che passa attraverso la sua stessa vita. Per questo motivo i suoi versi acquistano una singolare concretezza, trasformandosi nel continuo diretto confronto con il singolo evento storico, con il singolo uomo, in un caratteristico modo di figurare il reale.
È facile pensare, dunque, che nel poema siano citati alcune personalità della città di Ravenna o delle zone limitrofi. Ebbene, una di queste si trova in quello che forse è il canto più conosciuto: il V dell’Inferno.
Francesca da Polenta, infatti, era figlia del caro Guido da Polenta, il mecenate di Dante che abbiamo prima citato. Il poeta inserisce lei come prima peccatrice dell’Inferno, proprio come è parente di un amico anche la prima anima beata che incontra Dante nei cieli, l’ignota Piccarda.
Francesca fu data in sposa a Gianciotto Malatesta, che combatté per i Da Polenta nella guerra contro la famiglia rivale dei Traversari per il dominio della città. Le nozze erano state combinate dalle famiglie almeno dal 1266, anche se non è chiaro il motivo. Forse era stato il modo di sancire una pace duratura tra le due signorie, spesso in contrasto, o forse fu un riconoscimento ai Malesta che aiutarono Guido a imporre il proprio dominio su Ravenna.
Chiaramente, il matrimonio non fu d’amore, sappiamo infatti attraverso Dante, unico testimone storico dell’evento, che all’età di 15 anni, nel 1275, Francesca tradì il marito con il fratello di quest’ultimo, cioè Paolo.
La città bizantina, in questo canto dell’Inferno, è citata da Francesca e allusa sullo sfondo suggestivo del grande fiume che corre al mare per aver pace (Inf., V, 99).
I da Polenta vengono ancora citati nel canto XXVII dell’Inferno (l’agula da Polenta la si cova, / sì che Cervia ricuopre co’ suoi vanni, e cioè “l’aquila dei Polentani si cova la città di Ravenna, in modo da arrivare a coprire con le sue ali, e quindi a dominare, anche Cervia) quando il poeta approfitta della domanda di Guido da Montefeltro per introdurre un ampio squarcio storico- geografico sulla Romagna. Fa un elenco delle città, con i suoi tiranni e le loro nequizie e quindi porta avanti una denuncia etico-politica, secondo una tematica ricorrente nel poema.
Questa mappa della città con tiranni simili alle bestie feroci dei loro stemmi, ricorda inoltre la descrizione della valle dell’Arno fatta nel XIV del Purgatorio, dove ogni città toccata dal fiume è abitata da una diversa specie di bestie.
Su un altro sfondo romagnolo è posto Bonifacio Fieschi nel penultimo girone del monte sacro, dove espia il peccato di gola. Anch’egli fu abitante di Ravenna, dal settembre 1275 al dicembre 1294. Nei versi dedicatigli emerge come uomo di grande arguzia.
Quanto al Paradiso, in molti hanno riscontrato un’analogia tonale e figurativa coi tesori musivi dell’antica città di Ravenna, come Guidubaldi che vedette nella cantica un “grandioso mosaico dell’eterno”.