Massimiliano Mascia, o Max, come viene chiamato da parenti, amici e dai clienti più assidui del San Domenico, è un vero e proprio “nipote d’arte”. Max ha raccolto il testimone gastronomico dallo zio Valentino Marcattilii, leggendario chef che a cavallo fra gli anni ’80 e ’90 ha portato la cucina del più celebre ristorante di Imola nell’olimpo della ristorazione, collezionando stelle Michelin su entrambe le sponde dell’Atlantico. Maurizio Magni, giornalista, sommelier e responsabile della guida Emilia Romagna da Bere, ha incontrato Max Mascia all’Autodromo Enzo e Dino Ferrari in occasione della tappa conclusiva della rassegna “Vini ad Arte”, indetta ogni anno dal Consorzio Vini di Romagna per celebrare le eccellenze enogastronomiche del territorio.
Articolo uscito originariamente su EmiliaRomagnaVini.it
Mascia, oggi è lei a dirigere le cucine San Domenico di Imola facendo rivivere un mito nato e cresciuto fin dagli anni settanta che intreccia storie di personaggi come Gianluigi Morini, l’ideatore ‘visionario’, Luigi Veronelli, il grande consigliere, o Nino Bergese, lo chef dei re, tutti coinvolti a vario titolo nell’avventura. Quanto pesa o al contrario quanto agevola questa pesante eredità sulla sua attività ai fornelli del San Domenico?
Inizialmente è stato un match alla pari. Negli anni di scuola in molti mi guardavano con occhi diversi. C’era una sorta di timore reverenziale nei confronti del San Domenico. Da parte mia però ho sempre cercato di mettere le cose in chiaro. Io ero lì per imparare. Quando non sai fare niente non importa di chi sei figlio o nipote… Certo, a scuola alcune cose mi sembravano familiari perché le vedevo fare continuamente al ristorante. Però sapevo di dover approfondire. E sono tutt’ora convinto che non si nasce imparati e che la scuola alberghiera è determinante per chi fa il nostro lavoro. Anni dopo quando ho cominciato a propormi ai ristoranti in Italia e all’estero, un po’ di agevolazioni credo di averle avute. Almeno al primo contatto.
Poi però me la sono dovuta sudare tutta. È vero, avrei potuto rimanere a Imola fra i fornelli amici perché la mia strada era abbastanza segnata. Ma la curiosità e la sete di imparare mi ha spinto ad affacciarmi al mondo. Sono nate così le esperienze italiane al Ristorante Vissani, quella statunitense all'Osteria Fiamma di New York e quelle francesi prima alla Bastide Saint Antoine e infine a Parigi dal pluristellato Alain Ducasse al Plaza Athenée.
Il San Domenico ha fatto scuola di ristorazione per anni in Italia e nel mondo: come vive oggi di quel mito?
Sicuramente fin dagli anni ‘80 il San Domenico è stato uno dei primi ristoranti ad aprirsi all’estero con le esperienze e le consulenze negli Stati Uniti e a New York. Ancora oggi tanti stranieri e soprattutto americani si ricordano quei tempi. E il ‘pellegrinaggio’ che abbiamo al ristorante soprattutto dagli Usa ci fa capire che non ci hanno dimenticato. Ma qui non ci siamo mai adagiati sugli allori. Il San Domenico è sempre stato un cantiere per nuove proposte che gli zii Valentino in cucina e Natale in sala hanno portato avanti crescendomi alla loro scuola.
Quanto c’è oggi nella sua cucina della tradizione dello zio Valentino e del mitico Nino Bergese, il cuoco dei Re, primo chef del San Domenico negli anni ’70? Insomma c’è più tradizione o innovazione nella sua cucina?
Nella mia cucina c’è sicuramente tanta tradizione perché io parto dal presupposto che quella del nostro ristorante non è la mia cucina ma è la cucina del San Domenico. Come la maglia, il simbolo di una grande squadra di calcio non la fa l’allenatore di turno. C’è una memora da tramandare. Perché il rispetto per un grande ristorante è la sua tradizione.
Non sono io il protagonista, né domani sarà un altro chef, ma è la filosofia del locale la cosa più importante. Abbiamo avuto anni in cui la cucina rincorreva le mode, ma noi siamo sempre stati fedeli a noi stessi. Ci sono piatti diventati simbolo come l'Uovo in Raviolo San Domenico con burro di malga, parmigiano dolce e tartufo o la Mattonella di fegato d'oca con purea di mele e gelatina al Porto e pan brioche o ancora la Torta Fiorentina fatta con i biscotti di frolla al cacao e la crema senza uova che continuano a essere proposti con grande successo. E ce ne sono altri di nuova creazione, che si inseriscono e che piano piano entreranno nella tradizione. Senza fretta, con tanta pazienza.
Cosa ha rappresentato e rappresenta oggi il San Domenico per l’immagine della Romagna del cibo e del vino? Insomma anche il San Domenico secondo lei ha contribuito a sdoganare la Romagna da certi stereotipi?
Sicuramente sì, soprattutto negli anni ‘80 e ‘90 abbiamo aiutato a suggerire una gastronomia e anche una proposta enologica della Romagna nel mondo. Negli Stati Uniti per esempio dove andavano per la maggiore, sulla scia di un discutibile italian style, piatti come le penne alla vodka o gli spaghetti con le polpette, noi con il nostro San Domenico di New York aperto nel 1988, abbiamo proposto piatti come i garganelli o i passatelli e insieme ai piatti abbiamo voluto i nostri sangiovese, mettendo la enogastronomica Romagna in primo piano.
A proposito di vino, dall’alto della vostra mitica cantina, come giudica il vino romagnolo? E quali sono le difficoltà, se ce ne sono, a proporre un vino del territorio in un ristorante pluristellato come il vostro?
Chi viene in uno stellato cerca un percorso, un’emozione. E noi abbiamo vini di 21 regioni italiane oltre che una grande selezione di vini francesi e del ‘nuovo mondo’. Tenendo conto di questo, la cosa più difficile è proporre un vino locale a clienti romagnoli che in molti frequentano il nostro ristorante. È invece decisamente più agevole suggerire l’enologia del nostro territorio a un cliente straniero o proveniente da altre regioni italiane. Il nostro sommelier Francesco Cioria è maestro nella valorizzazione dei nostri vitigni come sangiovese e albana, e condivide con tutti noi l’importanza della narrazione del territorio a 360 gradi. Raccontando il vino in abbinamento con gli altri grandi prodotti della nostra terra, come i formaggi i salumi, l’olio, la carne.
Il San Domenico ha vissuto stagioni memorabili, è stato visitato da personaggi eccellenti, ha fatto scuola nel mondo. Ha qualche aneddoto o qualche personaggio che secondo lei non può non essere citato in questi 50 anni di successi?
Il San Domenico negli anni ha visto sedersi alle sue tavole il bel mondo e il mondo che conta, dai capi di stato ai ministri ai divi dello spettacolo. E naturalmente tutto il circo magico della Formula 1 che a Imola è sempre stato un grande valore aggiunto. Alcuni fra i ricordi più emozionanti del locale sono legati alle cene con i piloti, da Ayrton Senna ad Alan Prost a Michael Schumacher. Cene che io ho vissuto solo in fotografia e ascoltato nelle storie dei miei zii. Più recentemente, e ce l’avrò sempre negli occhi, ricordo la cena per il 50° compleanno di Flavio Briatore, quando Briatore era direttore sportivo in Formula 1. Fu una festa a sorpresa organizzata niente meno che da Naomi Campbell.
La ricordo, bellissima, che si aggirava per il ristorante interessandosi della mise en place e della torta, con Valentino e Natale a fare i padroni di casa e io, poco più che adolescente, a fare ragazzo di bottega… Ma mi rimangono impresse anche cose semplici e commoventi come il pranzo di qualche domenica fa per il 70esimo compleanno di una nostra vecchia cliente che è arrivata ignara della festa e non finiva più di ringraziare e di asciugarsi gli occhi. Cose semplici ma di grande valore che fanno tenerezza e riempiono di orgoglio. Il San Domenico è davvero il ristorante del nostro territorio.
Un’ultima domanda: come si possono incrementare in base alla sua esperienza di ristoratore i vini di Romagna nelle carte dei vini in regione e fuori regione? Di cosa necessita il ristoratore da parte dei vignaioli perché si consolidi una partnership schietta ed efficace?
Per prima cosa c’è bisogno di qualità e soprattutto di costanza nella qualità, sia per il vino come per le materie prime. Io non so che farmene di un produttore che fa un prodotto eccezionale una sola volta. Ho bisogno che il suo prodotto sia costante nel tempo. Sulla qualità l’enologia romagnola è cresciuta enormemente. E questo è ormai un punto fermo.
Poi c’è il secondo aspetto che è quello della comunicazione. Il vino va comunicato. È importante proporlo in Italia e all’estero. Purtroppo all’estero la Romagna è davvero poco rappresentata. Ma non per un problema di qualità. Nelle carte dei ristoranti in giro per il mondo quasi mai vince la qualità. Spesso quello che conta è il vino conosciuto o il vino di chi sa andare a proporsi. Perché un ristoratore di Hong Kong che non capisce gran che di vino certamente non viene a cercarti se non sei tu che ti proponi. Certo tutti conoscono i grandi Château francesi, o i soliti noti delle regioni più blasonate d’Italia, ma le cantine della Romagna sono sconosciute al mondo nonostante ci sia una grande qualità.
Quindi una parte importante del lavoro di un produttore è proprio quella di proporsi, ma serve anche un brand regionale per dare visibilità al territorio. Oggi comunque, lo ribadisco, molti sangiovese e molte albana meritano di essere nelle carte importanti dei ristoranti di tutto il mondo. Con una parola d’ordine: qualità e costanza di rendimento insieme al lavoro del sommelier che ti accompagna alla ricerca di un territorio e del giusto abbinamento.
Si ringrazia ancora il portale EmiliaRomagnaVini.it e l'autore Maurizio Magni per averci permesso di condividere l'articolo.